Nell’ultimo decennio la responsabilità professionale dei medici, grazie soprattutto ad una copiosa elaborazione giurisprudenziale, ha subito profondi mutamenti.
Infatti uno dei quesiti che ricorre di frequente nelle aule di giustizia riguarda la responsabilità medica: ovvero: “fin dove si può configurare la responsabilità del sanitario e in quale responsabilità incorre un medico che procura un danno al proprio paziente?”
Per lungo tempo l’approccio della giurisprudenza dominante sulla responsabilità medica è stata legata alla nozione di colpa grave ex art. 2236 del codice civile. Anni addietro infatti poteva configurarsi l’ipotesi di colpa medica solo quando risultava -dall’operato del sanitario- una evidente e grossolana violazione delle regole cautelari o se lo stesso, durante un trattamento, non applicava i principi generali e fondamentali della professione.
Determinante, per il cambiamento di orientamento da parte della giurisprudenza, è stato l’intervento della Corte Costituzionale n. 166 del 28 novembre 1973, che per prima ha chiarito che “la gravità della colpa risulta ragionevole tutte le volte in cui c’è un errore tipicamente professionale, cioè scaturito da difetto di perizia”.
Ma scopriamo insieme quali novità sono state apportate di recente al concetto di responsabilità medica:
L’orientamento che oggi si è affermato prescinde ormai dalla valutazione ex art. 2236 cc. e si incentra sull’accertamento degli elementi tipici della colpa penale ex art. 42, 43 c.p.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere l’attività medica un’attività rischiosa ma giuridicamente autorizzata perché socialmente utile, facendo rientrare la “colpa professionale medica” nell’ampio genus della colpa ( non più dunque solo colpa grave, richiesta dal suddetto art. 2236 c.c.) .
Ma diamo uno sguardo al passato: Sino al 1999, si è sempre sostenuto che non esistesse un rapporto giuridico diretto tra il paziente e il medico, ma solo tra il paziente e la struttura sanitaria in cui il medico operava, da un lato, e dall’altro, il rapporto tra il medico e la struttura sanitaria in cui questi era inserito.
Se il paziente subiva un danno in conseguenza dell’opera dei sanitari, dunque, tenuta al risarcimento, per inadempimento contrattuale, era solo la struttura sanitaria, con la quale si era instaurato un rapporto di natura contrattuale: si parlava di prestazione d’opera del medico a favore della struttura sanitaria, inquadrando la sua attività nell’ambito delle obbligazioni di mezzi. E dunque era solo l’ente ospedaliero che si impegnava -per il tramite dei propri operatori sanitari- a porre in essere le cure necessarie per il paziente, rispondendo nei suoi confronti nel caso di danno. Mentre l’operatore sanitario rispondeva nei confronti della struttura nella quale era inserito, solo in caso di dolo o colpa grave.
Dal 1999, invece, il sistema della responsabilità medico-sanitaria è cambiato. C’è infatti oggi un rapporto giuridico diretto tra medico e paziente. Si è affermato infatti che anche il rapporto tra il medico e il paziente (e non più solo tra paziente e struttura sanitaria) gode di natura contrattuale poiché si basa su un contatto sociale qualificato, che trova fonte e tutela, nel nostro sistema giuridico, nell’art. 1173 c.c.
In virtù del contratto, il medico ha quindi l’obbligo di fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi (tra i quali quello del consenso informato, di seguito specificato). E per i principi in materia di responsabilità contrattuale, sia prima del 1999, che dopo, il paziente che ha subito un danno, agendo in giudizio per ottenere il suo risarcimento, deve solo e soltanto dimostrare quest’ultimo e l’esistenza del contratto – o “contatto sociale”-, restando a carico della struttura sanitaria e dei medici dimostrare l’inesistenza del nesso di causalità, ovvero di aver operato nel pieno rispetto degli obblighi loro imposti dalla legge.
CENNI SUL NESSO CAUSALE in ambito penale:
Il problema della relazione causale tra “errore medico” e “pregiudizio del paziente” viene risolto sulla base delle regole enucleate negli art. 40-41 C.p.: “la condotta del medico è causa del danno se mentalmente eliminata possono essere escluse le conseguenze pregiudizievoli per il paziente”.
L’ orientamento espresso, sul tema del nesso causale, dai Supremi Giudici della Corte di Cassazione (Cass. pen. sez. IV, 23 gennaio 1990) è quello di considerare il nesso di causalità, nell’ambito della responsabilità medica, accertato secondo il criterio della probabilità.
CENNI SUL CONSENSO INFORMATO:
La necessità di un consenso libero ed informato del paziente discende sia dal dettato costituzionale che da previsioni normative e deontologiche.
Anzitutto il consenso del paziente può rendere lecita l’attività medico- chirurgica solo laddove sia immune da violenza, dolo o errore.
L’art. 5 del cod. civ. tutela l’integrità fisica: con esso il legislatore ha sottolineato che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume”. Quindi diventa oggettivamente impossibile curare un malato –non consenziente- senza violarne l’integrità psicofisica. Il consenso del paziente è visto come un atto avente funzione autorizzatrice dell’invasione altrui nella propria sfera giuridica, e giustificatrice di eventi lesivi e deve essere prestato in maniera libera e cosciente.
Si discute in dottrina sulla natura giuridica da attribuire al consenso: da un lato ci sono i sostenitori della tesi che ritiene il consenso una manifestazione unilaterale di volontà (negozio giuridico unilaterale) e dall’altro vi è chi lo ritiene un negozio giuridico bilaterale o addirittura un contratto d’opera professionale). Comunque lo si ritenga, è certo che oggetto del consenso è sempre – o quasi- una scelta autodeterminativa dell’individuo. La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente). Naturalmente la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso.
Il paziente, in virtù del principio del consenso informato, dovrà quindi valutare serenamente e consapevolmente se sottoporsi o meno al trattamento. Perciò l’obbligo informativo dovrà essere completo e preciso, concernente lo stato di salute del paziente, il ventaglio di possibilità degli interventi offerti dalla scienza medica, e gli eventuali rischi connessi alla terapia o all’intervento da eseguire.
La regola del consenso è di difficile, se non impossibile, applicazione in almeno tre casi:
a) quando il paziente è minore d’età;
b) quando il paziente, per malattia mentale, è incapace di ricevere l’informazione e di esprimere un valido consenso;
c) quando il paziente, pur essendo un soggetto capace, versa in una situazione tale da non poter essere interpellato (così avviene, per esempio, nelle situazioni di emergenza in pronto soccorso).
Nel primo caso, fermo restante il principio generale per il quale, il consenso ai trattamenti sanitari dev’essere espresso dal diretto interessato (il diritto alla salute è personalissimo e la sua tutela non può essere affidata ad altri), esso va richiesto a chi esercita la patria potestà.
Nel secondo caso ossia nel caso di malattia mentale la quale richiede un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi della legge 13 maggio 1978 n. 180, il medico può procedere senz’altro alla terapia, con il consenso del tutore (se c’è), ma deve “svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato ( nr: ovvero i familiari se ci sono, il tutore, se c’è, o in loro mancanza, l’autorità pubblica locale) .
Quanto, infine, al terzo caso, ossia quando il paziente non è in grado di esprimere il consenso perché versa in una situazione di emergenza, ed è solo, il medico può agire, perché giustificato dallo stato di necessità delineato dall’articolo 54 cp, secondo cui l’agente commette il fatto (lesioni personali, ovvero provocata incapacità) per esservi stato costretto dalla necessità di salvare una persona dal pericolo attuale di un danno grave; pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, e sempre che il fatto sia proporzionale al pericolo, e cioè che la cura sia adeguata.
Per una maggiore completezza dell’argomento trattato seguono due sentenze recentissime:
1) “Il medico-chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall’art. 1176 comma 1 cod. civ., ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dal comma 2 dell’art. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, tenendo conto che il progresso della scienza e della tecnica ha notevolmente ridotto nel campo delle prestazioni medico-specialistiche l’area della particolare esenzione indicata dall’art. 2236 cod. civ. (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva escluso che possa considerarsi problema tecnico di speciale difficoltà per uno specialista ortopedico la corretta terapia della immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato)” (Cass. civile, sez. III, 03-03-1995, n. 2466).
2) “Ai fini del riparto dell’onere probatorio, è sul medico che grava l’onere probatorio della diligente esecuzione della prestazione terapeutica, laddove sul danneggiato incombe solo l’onere di provare il rapporto contrattuale e allegare (non provare) la difformità tra la prestazione ricevuta e quella normalmente realizzata con la dovuta diligenza” (Cass.S.U. n. 13533 del 30/10/2001).